martedì 21 agosto 2012

Daniel Dyler e le Avventure nelle Terre di Mito. III- Benvenuti a Zerya




«Svegliati Jake, svegliati!» furono le prime parole che Jacob udì, non appena riprese conoscenza. Una volta aperti gli occhi scorse la sagoma dell'amico. Lo riconobbe nonostante la presenza di una fortissima luce bianca, che lo abbagliava a tal punto da indurlo a socchiudere nuovamente le palpebre. «Daniel, stai bene? Dove siamo? Cos'è questa luce?» disse quindi all'amico, balzando letteralmente tra le sue braccia. «Sicuramente siamo lontani da casa. Anzi, ho l'impressione che siamo molto, molto lontani. Ma non sono riuscito a vedere nulla, sono svenuto... Non so dove ci troviamo». Il giovane Dyler non sembrava affatto spaventato, almeno finché non gli venne in mente che entro pochi minuti sarebbe cominciata, nel liceo di Ullapool, la lezione di matematica: «Dannazione, la Forsaidh, la Forsaidh, quella mi boccia sul serio sta volta! O peggio, va da mio padre e gli dice che ho marinato la scuola stamattina... E addio festa di compleanno!». «Il dado è tratto Daniel, me lo dici sempre anche tu quando sono io a combinare qualche disastro! Tu sei salito su quel dannato cavallo! E adesso dobbiamo pensare come tornare indietro, ma dubito che riusciremo ad arrivare a lezione in orario. E dubito anche che arriveremo entro il pomeriggio... Potremmo anche non essere più nel West Highland!» ribadì Jacob. A quel punto Daniel mutò nuovamente il proprio atteggiamento, quasi lasciandosi alle spalle le sopraggiunte preoccupazioni, sopraffatto dalla curiosità ed eccitato dall'avventura. «Già!» esclamò, cercando di guardarsi attorno, con una mano sopra gli occhi, per ripararsi dall'intensità della luce. «Daniel, mi stai ascoltando?! Dobbiamo trovare quei cavalli! Dove sono quei cavalli? Forse loro possono riportarci a Ullapool...» esclamò Jake. 

 A un tratto la luce bianca che confondeva, quasi fosse fitta nebbia, la vista dei due ragazzi, iniziò a perdere intensità, fino a scomparire. In questo breve lasso di tempo Daniel e Jake si accorsero che si trovavano in mezzo a una sorta di anfiteatro, grande quasi quanto un moderno stadio. Il pavimento su cui si erano risvegliati i due amici era ricoperto di un marmo molto chiaro, mentre gli spalti erano costituiti da gradinate lapidee uniformi, non rivestite, che suscitavano un'impressione di imponenza e maestosità. Nel mezzo di esse correva un'unica fila circolare di grandi sedie argentee, che luccicavano all'orizzonte, abbastanza distanti l'una dall'altra e disposte con assoluta regolarità. Al centro dell'arena vi era una grande terrazza rialzata, a base pentagonale, coperta da una cupola d'oro. Quest'ultima era sostenuta da cinque sottili colonne, assai slanciate e di color vermiglio, poste negli angoli. Gli spigoli della struttura muraria sottostante erano anch'essi tinti del medesimo rosso, tanto che dalle tribune sembravano dei veri e propri pilastri, posti alla base delle colonne e formanti con esse un doppio ordine. Nel mezzo della terrazza rialzata vi erano cinque maestosi troni, costruiti con lo stesso oro della cupola e decorati con pietre preziose di diverse tonalità, ciascuno rivolto a uno dei lati del pentagono. Daniel e Jake riuscivano a vederli abbastanza bene dalla loro postazione e ne rimasero subito meravigliati. «Mai vista una costruzione del genere nel West Highland!» esclamò attonito il giovane Reid, armandosi della consapevolezza di essere lontano da casa. «Non credo ai miei occhi, ma potremmo essere in Italia. Questo non può essere che un anfiteatro romano» rispose Daniel. «Tirato a nuovo però!» lo interruppe l'amico. «Già...».

 «Daniel, guarda laggiù! Le sedie luccicano come stelle... E non sono vuote... Non siamo soli!» aggiunse Jacob, notando che i posti a sedere sugli spalti erano praticamente tutti occupati. «Che vista da falco, non ti smentisci proprio mai» disse allora Daniel. E poi «Andiamo a vedere Jake, dai, corriamo!». Man mano che si avvicinavano alle gradinate si resero conto che ognuna di quelle sedie era occupata da un ragazzo o da una ragazza, che dovevano avere all'incirca la loro età. «Davvero incredibile, saranno un migliaio!» esclamò Daniel, facendo rapidamente ruotare il proprio sguardo a trecentosessanta gradi. «Ehm... ci sono due posti liberi da quella parte...» aggiunse l'amico. «Sai che non credo alle coincidenze Jake. Quelle sedie sono per noi due. Corriamo!». «D'accordo, ti seguo». «Da quando tutto questo coraggio?». «Ho alternative?!». I due continuarono a parlottare, anche dopo aver decisamente accelerato il passo. E in un battibaleno furono alle scalinate. Le risalirono, non senza faticare, sebbene fossero due sportivi, arrivando a destinazione col fiatone. Si accorsero che tutti i ragazzi già seduti erano praticamente immobili, con lo sguardo rivolto alla cupola dorata, quasi ne fossero ipnotizzati. Nessuno sembrò avvedersi del loro arrivo. Era tutto davvero molto strano. «Non è che sono tutti degli Zombie vero?» chiese Jake, visibilmente preoccupato. «Non esistono gli Zombie!» rispose Daniel. «Già, ma nemmeno i cavalli alati dovrebbero esistere...» continuò allora l'amico. Non appena ebbe finito di pronunciare queste parole, Jake alzò gli occhi, quasi potesse ottenere qualche risposta dal cielo, il cui azzurro, vivo e lucente, si specchiò così nelle sue iridi color ghiaccio. Proprio in quel momento il silenzio fu rotto dal sopraggiungere di un rumore molto forte, proveniente dal centro dell'anfiteatro. Solo Daniel e Jake si voltarono per guardare che cosa stesse accadendo, mentre tutti gli altri sembravano essere totalmente indifferenti anche a un tal frastuono. Tramite lo scorrimento di alcune enormi lastre marmoree, si spalancarono cinque ampie aperture nel pavimento dell'arena, ciascuna delle quali in contiguità con uno dei muri della struttura pentagonale. Il processo, da cui evidentemente scaturiva il rumore, si concluse dopo pochi minuti, ma il ritorno della quiete non durò altrettanto a lungo. Fu infatti nuovamente rotto, allorché da queste porte uscirono, uno dopo l'altro, tantissimi cavalli bianchi, che si disposero tutt'attorno, occupando una buona parte dell'arena. «Così entravano le belve feroci nel Colosseo!» esclamò Daniel, a cui venero in mente le numerose descrizioni che aveva letto riguardo ai combattimenti tra uomini e leoni, tanto brutali quanto amati dagli antichi Romani. «Questi sono cavalli normalissimi però, non hanno le ali!» esclamò invece Jacob, richiamando l'attenzione di Daniel su tal particolare, che gli pareva importante. «Forse quelle ali d'argento le abbiamo davvero soltanto sognate...» continuò, notando che le sue parole avevano particolarmente colpito l'amico, risvegliandolo dai sogni a occhi aperti riguardanti l'Impero Romano. «Hai ragione Jake, è strano che non abbiano le ali» disse Daniel, mettendosi una mano sulla fronte. «Beh, è strano che quelli di prima le avessero, non che questi non le abbiano!» ribatté Jacob, evidenziando il paradosso delle parole appena pronunciate dal giovane Dyler. «Forse hai ragione, ma non so quanto valga un ragionamento razionale come il tuo in un contesto irrazionale come questo» concluse Daniel. 

 Avvicinandosi ulteriormente alle due sedie vuote crebbe in Daniel e Jacob il desiderio di raggiungerle e occuparle, come avevano fatto tutti gli altri ragazzi. «Chissà cosa si prova a diventare uno Zombie!» esclamò il primo, ironizzando su quanto si era detto precedentemente. «Irrazionalità, l'hai detto tu... Quindi possono esistere anche gli Zombie!» ribadì Jake, rigirando abilmente la frittata, in modo da far notare a Daniel che, poco prima, si era contraddetto. «In ogni caso dobbiamo fare qualcosa. E l'unica cosa che possiamo fare è sederci» continuò. A questo punto non fu certo Daniel a opporsi ed entrambi si affrettarono a occupare i due posti vacanti. Una volta che furono seduti provarono una del tutto innaturale sensazione di sollievo, quasi fossero sotto l'effetto di un sedativo, e non riuscirono più a staccare il loro sguardo dalla cupola dorata, proprio come doveva essere accaduto a tutti gli altri.

 A un tratto al di sotto della cupola qualcosa si mosse. Uno dopo l'altro fecero capolino sulla terrazza, attraverso una piccola scala a chiocciola posta esattamente al centro di essa, dietro agli schienali dei grandi troni, cinque uomini, non più giovanissimi, indossanti delle lunghe toghe, ciascuno di un colore diverso. Questi occuparono i cinque seggi, senza tuttavia destare troppo nell'occhio dei ragazzi sugli spalti, ancora imbambolati dalla lucentezza della cupola. Dopo qualche minuto, tuttavia, uno di loro, che doveva essere il più anziano, all'incirca sulla settantina, e aveva il volto molto scavato, la pelle olivastra e i capelli ancora perfettamente corvini, che fuoriuscivano da un turbante, rosso porpora, così come la veste indossata, iniziò a parlare: «Buon giorno a voi, giovani di Gea, benvenuti a Zerya!». La sua voce si sentiva forte e chiara in tutto l'anfiteatro e le sue parole innescarono due fenomeni decisamente bizzarri. Innanzitutto la cupola smise di luccicare, diventando opaca, quasi bronzea, e così anche di attirare l'attenzione degli spettatori. Da quel momento tutti gli sguardi si poterono concentrare sui nuovi arrivati, occupanti i cinque troni. Contemporaneamente proprio queste grandi sedie auree, dai lunghi schienali, cominciarono a muoversi, molto lentamente, descrivendo una sorta di orbita attorno alla tromba delle scale. Erano infatti poste su di un piano rotante, in modo che da ciascun trono, compiendo un giro, si potesse aver vista su tutte le tribune dell'anfiteatro. Tra lo stupore di tutti quanti, Daniel e Jake compresi, quello strano individuo, dal tono di voce molto grave, che ne risaltava la solennità, continuò il suo discorso: «Zerya è la prima delle città delle Terre di Mito, il Mondo In cui Tutto Originò, molto lontano dal vostro pianeta, dai vostri paesi, dalle vostre case, ma allo stesso tempo molto vicino a tutti voi, cari ragazzi di Gea, perché un'unica sorte ci unisce, sin dal principio di tutte le cose...». 

(M.T.)

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