giovedì 11 ottobre 2012

Il bimbo che parlava coi fiori

#storytelling

Era l’ennesimo rigido inverno di una Milano in cui il bianco e il grigio sembravano aver estinto tutti gli altri colori. Con il quarto millennio alle porte e i segni sempre più marcati e malinconici della nuova glaciazione, gli abitanti di quel piccolo borgo, che era probabilmente stato gran città e prima ancora capitale di un fantastico impero, provavano nonostante tutto a vivere nel miraggio di un futuro migliore. La neve non aveva ancora gettato completamente nell’oblio i ricordi, sempre più lontani e avvolti nella nebbia, del passato in cui s’era potuto assaporare il tepore del sole. Tutti attendevano con ansia il manifestarsi di una profezia, gelosamente conservata nei libri degli scienziati di quell’età dell’oro che fu: il ritorno dell’estate, o quantomeno della primavera. La fine dei ghiacci, la rinascita di una società tutto sommato felice, in cui si poter ballare, viaggiare, vedere il mare. In molti avevano tuttavia perso la fiducia e per i più si trattava solo d’un antica leggenda. Il baratro della rassegnazione non era lontano. I granelli di sabbia, le cascate, il verde, i fiori: quello che rimaneva di tutto ciò era impresso negli astratti dipinti conservati nei musei. Questi bizzarri edifici, che agli occhi dei contemporanei parevano contenere i più acuti prodotti della follia dell’uomo, ovverosia delle proiezioni immaginarie di un mondo interiore che solo gli artisti, fuori da ogni tempo, riuscivano ancora a immaginare, erano paradossalmente sopravvissuti al declino delle grande civiltà. La forza della natura sembrava averli risparmiati, per qualche strano scherzo del destino. Non v’era quasi anima che li considerasse utili alla vita, ma nessuno aveva il coraggio di distruggerli. Non era ritenuto propizio sfidare apertamente il mistero del fato. In quello che era stato il pieno centro dell’antica e leggendaria Mediolanum, resisteva alle ormai eterne intemperie uno di questi musei, detto “l’Ambrosiana”. Il suo nome non era stato dimenticato, si sapeva che era in qualche modo legato al glorioso passato del borgo. Era tuttavia un luogo famoso soprattutto per un altro motivo. Aveva infatti smesso di soffrire la solitudine, poiché ogni giorno, da ormai quasi un anno, riceveva una visita sempre meno inaspettata. Verso le due del pomeriggio, l’ora in cui era più raccomandabile uscire di casa, un bambino biondo, sui sette-otto anni, non di più, entrava in quelle gelide sale e si sedeva di fronte a un antico quadro. Le didascalie, piuttosto consumate dal logorante avvicendarsi dei secoli, consentivano ancora di sapere che si trattava di un olio su rame, dipinto da un certo Brueghel, quasi millequattrocento anni prima. Vi erano raffigurati dei fiori, i cui colori erano senz’altro quelli più vivi di tutta Milano. Nessun’altra opera aveva mantenuto quei gialli, quei rossi, quei blu. E fuori non v’erano che il bianco della neve, il grigio del cemento e il nero della notte. Il bambino, forse orfano, sicuramente squilibrato, soleva parlare coi fiori. Diceva di conoscere i loro nomi, che glieli aveva svelati il nonno, a cui a sua volta erano stati rivelati da un avo. Omaggiava la Rosa, chiedeva al Tulipano, ammoniva il Giglio. I suoi occhi luccicavano infine di sogni, quando scambiava parole d’affetto con i piccoli Fiorellini Azzurri che circondavano la Farfalla, così vicini al suo leggiadro volo, tanto breve quanto spettacolare. “Non siete che un dettaglio, voi, i miei amici più piccini” diceva loro, accarezzandoli con il pensiero. Qualcuno gli aveva detto che si chiamavano “Nontiscordardime”, ma sapeva che doveva trattarsi di un soprannome, magari legato a qualche storia d’amore, o a un addio tra una triste madre e un giovane figlio. “Siamo tanto simili, infondo! Sono sicuro che anche a voi piacerebbe saper volare, come quella Farfalla. Solo volando potremmo fuggire dall’angolo buio in cui viviamo e raggiungere quella parte della tela in cui la luce dona il tepore del primo piano e l’odore della felicità…”. Spostava spesso lo sguardo sognante verso i vivaci colori di cui potevano godere per esempio la Cavalletta e la Libellula. Anche il bianco, in quel dipinto, gli pareva essere un colore. Per quel bimbo i fiori erano veri. Niente poteva dissuaderlo dalla convinzione che, da qualche parte, essi vivessero anche al di fuori di un quadro. Il rimpianto trasmessogli dal nonno si mutava energicamente in speranza, curiosità, desiderio. E in questo modo un semplice e ingenuo bambino, attraverso l’arte e grazie al museo, manteneva viva un’intera città. Se il passato è sempre un maestro di vita, spesso questo ruolo può recitarlo anche il futuro. Sembra un paradosso, certo, ma è sufficiente lasciarsi guidare da un po’ di immaginazione!

(M.T.)

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